Il 2 agosto Bologna ricorda ogni anno la strage del 1980 alla stazione centrale, quando lo scoppio di una bomba provocò la morte di 85 persone e più di 200 feriti. C’è a Bologna e in Italia un “prima” e un “dopo”quella tragedia, anche nella storia dell’organizzazione del “soccorso”. Quel giorno ,forti della consuetudine a lavorare col CePIS ,a Bologna ambulanze, ospedali ed ogni organizzazione di soccorso fecero riferimento a questo , che coordinò gli interventi con l’impiego della comunicazione radio. Il Centro di Pronto Intervento Sanitario (CePIS), istituito verso la fine degli anni sessanta a Bologna, era all’avanguardia per il tempo : situato presso l’Ospedale Maggiore disponeva di più linee telefoniche, un impianto radio per il collegamento con le ambulanze e un elaboratore elettronico in connessione coi vari ospedali della città che permetteva di conoscere in tempo reale la disponibilità dei posti letto nei reparti. Quindi sul luogo del disastro fu inviata una vettura dotata di apparato ricetrasmittente per fare da ponte radio per lo smistamento di tutti i mezzi e forze di soccorso e per indirizzare opportunamente e rapidamente i feriti verso gli ospedali della città secondo la competenza specialistica. Un lavoro immenso ,considerando che si trattava di smistare più di 200 feriti fra cui 50 politraumatizzati gravi. Contemporaneamente alla stazione si operava un triage rapido e drastico e i cadaveri erano trasportati agli obitori dall’autobus di linea 37. Il suo autista fu tra i primi a caricare i feriti verso l’Ospedale Maggiore prima che le ambulanze fossero arrivate alla stazione e in seguito guidò l’autobus come carro funebre con i finestrini oscurati da pietose lenzuola per lasciar libere le ambulanze di assistere i vivi. Dopo la strage il “soccorso “ anche in Italia cambiò direzione. Da quell’incredibile prova di efficienza e di solidarietà e da quella tragedia si fece strada una nuova visione .Si era avviata una rivoluzione nell’organizzazione del soccorso, inteso non più come trasporto all’ospedale più vicino ,e spesso basato sul senso di solidarietà fra i cittadini, ma come intervento sul posto per stabilizzare e mantenere le funzioni vitali ,con infermieri e
medici a bordo delle ambulanze,così da incidere significamente sull’intervallo di tempo,cruciale,in cui la vittima rimane senza adeguata terapia prima di giungere in ospedale. Una rivoluzione basata anche sul fare rete di tutte le realtà coinvolte, a cominciare dalle “croci”del territorio e associazioni di volontariato, coordinate da un’unica centrale operativa . Bologna a novembre dello stesso anno inaugurò “Bologna Soccorso”,nata dal CePIS , che ebbe modo di mettersi alla prova qualche tempo dopo con l’attentato al rapido 904 ,la strage di Natale del 1984 ,e ancora con il disastro aereo all’Istituto Salvemini di Casalecchio di Reno nel 1990. Nel 1990 a Bologna partì il 118,primo in Italia, collegato alla centrale di “Bologna Soccorso”. Dall’esperienza maturata sul campo divenne punto di riferimento nella gestione e sviluppo del soccorso sanitario e delle maxi-emergenze sul territorio nazionale, che culminò nel 1992 a recepire il modello bolognese col Decreto del Presidente della Repubblica del 27 marzo 1992 che istituiva in tutta Italia le centrali operative di soccorso sanitario , il 118, un numero che richiama l’articolo della Costituzione sulla sussidiarietà. Un servizio straordinario e insostituibile , colonna portante del Servizio Sanitario Nazionale, oggetto negli anni di dimenticanza protratta e ostinata da parte della politica ,resasi drammaticamente evidente nelle sue conseguenze con la pandemia SarsCov2 , e che permane nelle gravi criticità inaffrontate e irrisolte di cui fanno le spese cittadini ed operatori del settore ,strategico in termini di equità e di accesso alle cure.